Lello Voce

L'Unità, 16 Aprile 2000

Recensione del libro La Conversazione


Marina Mariani, Parole semplici come saette





Il dialogo - sosteneva il grande semiologo russo J. Lotman - viene prima del linguaggio e lo genera. Questa frase potrebbe essere utilizzata come esergo di «La conversazione», testo che raccoglie buona parte della produzione di una poetessa appartata, ma non sconosciuta, come Marina Mariani, finalista al Premio Viareggio '99 (Quasar, pagine 115, lire 20.000). Si tratta di un testo assai particolare, giocato com'è al confine tra semplicità e ironia, in cui, però, l'ironia è sempre strumento spietato di conoscenza e la semplicità non è mai trasparenza. Le parole sono infatti «vecchie appena nate / sciupate arrochite lucide splendenti»: Mariani sa bene, come Gadda di cui evoca un «Nevado», che ognuna di esse è già stata masticata da migliaia di bocche.
Cerca la semplicità, la sua poesia, ma la cerca perché essa è sentita come indispensabile e necessaria e non perché sia in grado di offrirci alcuna purezza; romanicamente individua gli elementi semplici scampati alla rovina e utili alla ricostruzione e nel descrivere il mondo prova a comprenderlo, ricostituirlo, ridonargli il senso. 0 invece, attraverso le chiavi dell'assolutamente semplice, passa lo smascheramento, lo spiazzamento definitivo che indica la smagliatura della rete, l'indicazione degli schermi e delle lenti deformanti attraverso cui è costretta a passare la nostra supposta esperienza del reale. «Dio mio / quanti occhiali» recita la chiusa della poesia che apre il libro di questa poetessa «affetta / da ipermetropia», dagli «occhi chiari» che il sole facilmente abbaglia ed anche, con l'età, ormai «presbite». O ancora, altrove «M'interrogo, vorrei sapere: / per entrare nella sagoma, e rimanerci». Nessuna ingenuità, dunque, solo quella semplicità che è difficile a farsi di cui parlava Brecht, declinata nell'accento di un nostro domestico postmoderno, orfano d'Utopia, ma pieno di caselli autostradali e d'aeroporti: «Accompagno qualcuno all'aeroporto, / e si fa sera». Per dirla con Gulinucci, che offre al libro un'interessante post-fazione, «l'andatura pacifica non deve ingannare: l'allarme è costante, screziato da qualche lampo di crudeltà». Né credo, come Berardinelli, che in Mariani la ricerca di un nome nuovo per il mondo, di una sua «dicibilità» passi attraverso la «messa tra parentesi» della «autocoscienza storica della poesia», anzi scommetto piuttosto su una sua radicale presentificazione, su una memoria del già detto che si fa «reazione a catena», fino alla produzione di un dubbio radicale che rifonda il futuro. Insomma «Bisogna dire l'essenziale / per tutto il resto è bene fare silenzio».Tutto qua.
Ciò che resta, ed è moltissimo, è il senso coraggioso di alzare lo sguardo sul mondo per dirlo com'è, come dovrebbe essere e come invece spesso ci sembra; ciò che resta è la certezza che le parole di Marina Mariani «nella mano / hanno ben strette, pronte all'uso, / un mazzo di saette» e insieme il sogno-utopia civilissimo e decisivo in cui l'essenziale si fa vita e suo definitivo confine: «Ho sognato che ero veramente anziana / e mi sentivo come a casa mia / dentro gli avvenimenti quotidiani. // Non più di un paio di piatti / da lavare / Non più di un paio di amici / da incontrare».