Avvenimenti


Numero 2
16/22 febbraio 2004


recensione a Una bella perdita di tempo

Rincorrendo la giocosità fiabesca di Chagall
Frammenti di autobiografia poetica di Marina Mariani
di Filippo La Porta

«Non è vero che da vecchi si è più soli; si è sempre in compagnia. Si sta un po' meno con i vivi, un po' più con i morti». Questa frase, che esprime uno sguardo insolito sulla terza età, potrebbe essere assunta come chiave di lettura privilegiata del luminoso libretto pubblicato da Marina Mariani Una bella perdita di tempo (Edizioni Quasar, pp.73, 8 euro). La compagnia che danno i morti -non solo, direi, le persone care che sono scomparse ma anche tutti gli scrittori con cui silenziosamente dialoghiamo - può essere non meno calorosa e protettiva di quella dei vivi. E anzi configura una visione "religiosa" dell'autrice su cui tornerò dopo. Con questa opera la Mariani, certo una delle voci più limpide della nostra poesia contemporanea, ha voluto raccogliere alcune sue prose sparse: articoli per l'Unità, interventi a Radiotre e un racconto inedito, “Piazza bella piazza”. Innumerevoli gli spunti e le suggestioni presenti in queste pagine in cui ricorrono alcuni temi centrali: la vecchiaia in primo luogo, la memoria, l'essere inattuali, la poesia, il girovagare, la propria «piccola patria», le città amate. In un certo senso il libretto è un'autobiografia onirica, poiché l'autrice vi si rivela per intero, benché in modi realistico-fiabeschi, allucinati e giocosi, tra Chagall e Zavattini (qui evocati). Ritroviamo così certa sua «colpevole» passività (esposta agli umori mutevoli degli altri), la sua sensazione di aver abbandonato (tradito) qualcuno e poi una stanchezza antica, e l'amore per tutto ciò che è sempli ce e inerme e, infine, il sentimento del bello (che coincide con il vero e con il bene). La sintassi, il ritmo della lingua, corrisponde perfettamente alla sua percezione del mondo: frasi brevi, a volte scandite in modo morbidamente assertivo, vicine al parlato, alla conversazione telefonica, un periodare che esprime un approccio alla cose gentile e incuriosito, ma a tratti incalzante e idiosincratico. In particolare vorrei citare almeno lo splendido commento al quadro seicentesco dello Spagnoletto ritratto in copertina: «Tutto è preciso in questo quadro, niente rimanda, allude a qualcosa che sta fuori. E tutto a cominciare da quello sguardo, sta altrove». E poi l'elogio dell'eco, come concetto alto, e tutto positivo, del limite: «L'eco è meglio...si forma perché il suono incontra un ostacolo vero, una cosa che sta nella natura. Il suono diretto invece non ha ostacoli, e assorda». La religiosità della Mariani, cui prima accennavo, è terrestre, priva di trascendenza. Con un altro poeta del Sud del mondo, Almodovar, benché in modi diversi, l'autrice condivide una qualche «religione dell'arte»: l'arte diventa l'unico strumento di cui disponiamo, in un paesaggio desolato di neve, per accedere ad una dimensione altra, imponderabile, nella quale i vivi dialogano con i morti, il presente con il passato, la realtà con il sogno. E se davvero, come confessa, lei si è sempre sentita inadempiente, inadeguata ai compiti richiesti, è perché doveva «obbedire» a un altro compito, ad una vocazione, leggera come i tulipani del quadro e perentoria come una «promessa di tepore».