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Avvenimenti


Numero 48
30 novembre 2007


recensione a In campo lungo

L'epos nascosto
Il libro raccoglie poesie scritte da Marina Mariani nel corso di un cinquantennio
di Filippo La Porta

La poesia di Marina Mariani (In campo lungo, Quasar), indubitabilmente tra le più alte del nostro panorama attuale, è solo apparentemente domestica e minimalista. È vero, ci parla di dolori privati, di stanze, di amici, dell'album di famiglia - dolente e allegro -, di anziani e pensionati ai giardinetti, di malattia, dei giorni della settimana, ma in realtà svela quasi subito il suo respiro epico-esistenziale. In che senso? Nel senso che si schiude intrepidamente all'avventura e alla sfida e al grande conflitto che è l'esistenza stessa. Rileggo gli ultimi versi del libro: «mi pare /-e mi viene da ridere - /d'avere quasi vinto». Ma com'è che "quasi" si "vince" questa singolare partita che è l'esistenza? Soltanto «attraversando la debolezza, dicendola sommessamente». Il libro raccoglie poesie di oltre mezzo secolo, dal 1944 al 2005. Se dovessi dire i versi più belli sono questi (giovanili): «Una mattina d'aprile l'angoscia entrò nella mia stanza/chiusa in un raggio di sole». Poi aggiunge che da allora l'angoscia la «guida serenamente». Essa è infatti come un dono venuto dal cielo, un oggetto certo temibile ma entro una confezione luminosa. Com'è che la guida serenamente? Ho una sola risposta. Attraverso la poesia. È possibile "forse"(una parola cara all'autrice) salvarsi se riusciamo a guardare il fondo delle cose, senza veli, e poi a trasformarlo in canto, sommesso o eloquente, meditativo o di immediata sonorità, in felicità e bellezza. La Mariani guarda spesso al cielo, alla sua luce, ai suoi colori, alle nuvole, come un filosofo presocratico della Magna Grecia, attenta a scrutare i segni di un destino, o a contemplare il mistero dell'universo. Ma nello stesso tempo ci parla dell'Italia, di come questo Paese si è trasformato, di come si è - a volte, non sempre -incarognito. E dunque l'ansia di difendersi e nascondersi, nelle relazioni quotidiane («Quella parte di verità/quella faccia della luna/che ci mostriamo pietosi/l'uno con l'altro, quel dirsi/sempre a metà...»), o questa diffusa ossessione paranoica: «alla radio se ci sono silenzi giustamente scatta l'allarme/stiamo in allarme tutti davanti al bianco/stiano in allarme in Occidente/tutti». Lei ci invita invece a non stare sempre in allarme, a mostrare qualche volta anche l'altra faccia della luna, ad attraversare vuoti, silenzi e spazi bianchi. La Mariani crede infine nel dialogo tra gli esseri umani, nonostante le differenze radicali: «Tra chi dice che tutto cambia/e chi dice che l'essenziale/non è mutabile... la discussione si può fare/Bisogna solo lasciare a casa i fucili.. ./distrarsi all'andirivieni». Mi soffermo sull'ultimo verso. Una umanità che "si distrae" è migliore, e più disposta a convivere. Distrarsi, lasciar andare, perdere tempo (in una poesia recente leggiamo che «Bisogna non temere/di perdere tempo» mentre in una precedente raccolta di prose della Mariani avevamo appreso che solo dalla perdita di tempo nascono i versi e le idee... A un certo punto si chiede se alla sua poesia «manchi un centro». Che bella utopia "politica" questa del decongestionamento dell'io e di una svagata, preziosa improduttività. L'unica cosa che ci permette di incontrare di nuovo, "in campo lungo", tutte le persone che ci sono state care.