Articoli di giornale, interventi alla radio, un racconto: dopo le poesie, Marina Mariani presenta un altro modo (diverso?) di raccontare i suoi incontri con le cose di tutti i giorni.
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La poesia, una bella perdita di tempo
Per fare le poesie ci vuole molto tempo. Moltissimo tempo. Bisogna perdere tempo: solo se il tempo lo perdi, qualche volta ti ritorna indietro nella forma di una poesia. Qualche volta succede, ma molto spesso no. Perdi tempo e basta. Si può fingere di fare qualcosa, mentre si sa che si sta soltanto perdendo tempo: io m'invento soprattutto che devo mettere ordine, eliminare oggetti inutili, sgombrare il tavolo; ma lo so che non è vero. Sto solo perdendo tempo.
Per fare le poesie c'è bisogno di tempo anche perché le parole che stanno dentro le poesie, e le compongono, devono essere proprio quelle: non è che ne puoi scrivere una a caso, come viene, così ti sbrighi. No, ci vuole proprio quella. E a volte per trovarla passano anni e tu ritrovi una poesia vecchia, che era rimasta lì incompiuta: e dopo tanti anni la trovi, la parola giusta. Insomma, le poesie sono oggetti di precisione.
Quando si scrive una poesia, spesso si vuole dire qualcosa a qualcuno: cosa sia, quello che si vuole dire, in genere non si sa bene. Non sono notizie, ma sono anche notizie. Non sono messaggi privati, però certo la persona che scrive c'entra molto. Quanto ai destinatari, si possono ipotizzare persone contemporanee, ma anche persone vissute anni o magari secoli prima (raramente persone del futuro; il futuro, almeno per me, è troppo misterioso).
Per fare le poesie ci vuole coraggio. Perchè sai che quello che stai scrivendo, altri l'hanno scritto molto meglio di te. Non stai inventando niente. E allora giochi, cioè affronti il rischio. Il rischio è il nocciolo di ogni poesia.
Per fare le poesie bisogna aver ascoltato, e guardato. Io quando posso vado in giro, ficco il naso dappertutto, m'impiccio di cose che non mi riguardano. Ma si può anche ascoltare quando non si sentono voci, e guardare quando è buio.
Per fare le poesie ci vuole pazienza. Perchè a fare le poesie in genere si è in due, uno dice e l'altro critica. Questo però non so se è vero per tutti i poeti. Secondo me ci sono due tipi di poeti: quelli proprio bravi e quelli cosi-così. Quelli proprio bravi scrivono da soli; quelli cosi-così (io per esempio) devono sopportare quell'altra voce, venirci a patti ogni volta. Con pazienza.
Le poesie vengono bene quando uno è molto contento, quando è innamoratissimo per esempio, e corrisposto; e vengono bene anche quando si è disperatissimi, l'amore se n'è andato via, o sono accadute cose ancora più brutte. Per quel che ne so io, di solito una poesia nasce dopo, quando a questo stato d'animo o quell'altro ci ripensiamo su. Ma ci sono poesie bellissime che tutto esprimono tranne questa riflessione: raccontano il fatto come se stesse avvenendo in quel momento, le leggi ed è come se vedessi un film.
Sono inutili, le poesie? Sono utili, certamente, a chi le scrive, altrimenti non le scriverebbe. E forse possono ancora essere poco poco utili a quei tre o quattro lettori che, avendole incontrate per puro caso, colgono con simpatia, per disposizione nativa, per rara consonanza, l'ombra del destino di cui sono il frutto: un destino, direi, di libertà forzata. Chi legge la poesia è libero (lui sì) di dare importanza maggiore all'uno o all'altro dei due termini.
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