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La conversazione Presente in tracce Nota di Michele Gulinucci Quanto racconta di sé, in versi, Marina Mariani? Tanto, forse tutto, stando alle fitte battute di questa Conversazione ininterrotta. Ma bisogna entrarci dentro, nella facondia ironica del suo patchwork di tranches d’âme tagliate e cucite con cura domestica, per scoprire che di sé riferisce pochissimo: “presente in tracce”, direbbe l’analista (clinico o terapeuta che sia). Giacché in questi dialoghi per voce sola io parla, o s’illude di parlare, con gli esseri e le forme di un mondo al quale naturalmente si sottrae, avendo preso nota di esserne escluso fin dalle origini. Lo fa impugnando l’utensile (l’ordigno) narrativo dello sguardo puro, da bambina presaga o donna trepida, nativa di un meridione mentale tratteggiato come un aldilà; e da lì riesce a interrogare noi, creature del Dopostoria, mischiando cautamente alcune cartoline “dalla Storia” nel mazzo di una cronologia arbitraria (vedi il “disordine” delle date di stesura) che ben rappresenta il suo percorso.
Nata in casa d’altri, ha affrontato la peripezia del vivere e del parlare condiviso – della confidenza con il prossimo in una patria comune – con la prudenza imposta da tempi spatriati. L’intrapresa era disperata ma intraprenderla ha sostenuto la vita e originato il canto. Il miraggio (forse il messaggio) era poter pronunciare io per intendere noi: una nostalgia di futuro tutt’altro che intimistica o metafisica, che nel nostro tempo espropriato assomiglia a un’aspirazione civile schiettamente anacronistica. Ma l’autrice non teme – il lettore lo scoprirà – di apparire fuori moda. Tuttavia lo sguardo è puro, non innocente. «M. notava in se stessa una lentezza, una tendenza alla distrazione, un’attenzione a cose, in genere minute, alle quali gli altri le sembrava dedicassero sì e no un’occhiata rapida; un insieme statico, pesante, che provocava un attrito, un’assenza della sintonia, della simpatia che rende agevole la comunicazione tra le persone (…) M. voleva stare con i suoi amici, e insieme voleva la cornice di silenzio. Voleva una cosa impossibile, ma la voleva con sicurezza, perché la vedeva». Note private, queste, che viaggiano a parte, che solo a fatica trovano nei versi una fessura cui affacciarsi: « le nostre esistenze parallele/s’incontrano in un punto/all’infinito». Insomma l’andatura pacifica di Marina non deve ingannare: l’allarme è costante, screziato da qualche lampo di crudeltà. Il che rafforza il suo diritto di parola tra le voci di fine secolo, variamente pervase da un orgoglio della singolarità, e da una gelosa assolutezza dell’espressione, a lei estranei per natura e cultura. Nel presentare i Nuovi poeti italiani 2 (Einaudi 1982) comprendenti una sua silloge, Alfonso Berardinelli trovò una formulazione convincente: «il tentativo, l’esigenza di ritrovare anche solo per se stessi una dicibilità del mondo, sembra richiedere che l’autocoscienza storica della poesia venga messa tra parentesi». E’ un referto ancora valido oppure va ribaltato, e dunque ricalcolato il dare-avere tra il mondo e la sua dicibilità, e riconosciuto il sommesso eroismo di chi è andato attingendo autocoscienza per sentieri parentetici? “E’ certo che la soluzione spetta a te:/la dissolvenza, la reazione a catena», si azzarda a dire Marina, impavida e dubbiosa. In effetti Berardinelli non escludeva neppure questo: «l’abdicazione forse è solo apparente». Intanto le strade continuano a biforcarsi, e l’azzardo dei poeti cresce. Per il futuro, «la scommessa la lanciano i nugoli di uccelli/che sono neri e traversano il cielo/verso una direzione precisa e variabile». |