SEGMENTI |
A Roma, verso il Ghetto I giovani non conoscono i nomi delle strade che percorrono spavaldi. Immersi in una nuvola di suoni, un po’ ubriachi. Esibiscono bambini issati sulle spalle. Immersi in una nuvola di suoni, attenti a una musica che comunica soltanto con loro. Tolleranti – spesso gentili: alle domande su strade, fermate d’autobus, sorpresi, lontani. Sfiorano graziosamente quella pietra, quell’angolo del ponte, quelle case. Poesia all’aria aperta Se le parole che io vi dico, o quelle che voi mi dite, quelle che ci diciamo tutti, i discorsi che ci facciamo, se tutte queste famose vecchie appena nate sciupate arrochite lucide splendenti morbide affascinanti candide parole, se noi le registrassimo tutte con un enorme registratore per farne con i moderni sistemi una classificazione e calcolare diabolicamente in conclusione che cosa ci diciamo; e una volta stabilito in modo sufficientemente probabile, moderatamente sicuro, mediamente attendibile, che noi diciamo soprattutto manca il sale e qualche altra cosa che non mi piace scrivere qui, se con un razzo via satellite lanciassimo le nostre rombanti parole verso lo spirito, nelle regioni immutabili dove da secoli con una fronda di mirto una fanciulla gioca; e se chiedessimo ad un cervello-calcolatore elettronico con lettore ottico per cui nemmeno bisogna perforare le schede di rimandarci indietro le parole selezionandole dopo che quelle regioni hanno attraversato, io chiedo a voi che cosa tornerebbe. Dobbiamo naturalmente continuare a parlare, si capisce, sicuro. Ma vedete, uno che sta all’aria aperta aspettando che s’apra una rosa, e intorno i mezzi di comunicazione di massa freneticamente ripetono queste famose eccetera parole, accade, può accadere che formalmente s’impegni a non dirne, parole, se non sono tornate vive da quelle regioni immutabili. |