Cézanne – Les dernières années





Quanti quadri per fare
un albero che non è più un albero e pare
chi sa – una linea un colore marrone o verde
un sovrastare di Dio
e insieme dire – quello lo vedi è l’albero
l’albero c’è
Che andirivieni dalla terra al cielo
Che strano mestiere dipingere

Spostare una parola da qui a là
(che strano mestiere scrivere versi)
e azzardare – non è una parola
quello che ho fatto è un pezzo
di realtà






Suite autunnale



Tema


Nelle città la narrazione non è richiesta.
Il tempo è scaduto; gli Omeri
si fanno ombra negli angoli - li schiaccia
il presente frettoloso; un futuro
non più procrastinabile è alle porte,
nugolo di uccelli famelici: ciò che si deve fare
è rafforzare gli sbarramenti, addossare
mobilia agli usci - circoscrivere
e difendere la casa coi denti.


Sta dentro una nuvola che si vede da qui
incorniciata dalla finestra, una nuvola non grandiosa,
anzi ingenua, nettamente disegnata.
A cercare, ad adoperare lenti
ben pulite, brillanti; a insistere, a riprovare,
a mettere a confronto saggi diversi,
a pensarci un poco su,
i tendaggi tra misteriosi sibili si aprirebbero
rivelando la scena nuda e ferma.
Ma l’ossessione di vedere - la coazione
a riferire con precisione, il compito
“racconta come hai trascorso
il dì di festa” va come fumo
nell’aria. La tentazione del serpente
s’incarna nel risibile millepiedi.



Svolgimento

E’ una vita, sono passi in una direzione
- sono passi in una direzione mutevole;
e soprattutto i colori, sono cangianti;
le linee anche, ma soprattutto i colori;
è lo sfondo che cambia... è la figura...
la figura con lo sfondo - il quadro.
La cornice invece sembra - per il momento - fissa:
ma io credo che per ogni evenienza è bene essere preparati.


La riflessione prende vita dalle foglie del platano
e dal viale dei platani, che nel mio caso è l’infanzia.
Infanzia peraltro non mutevole, ma capace
di capovolgimenti repentini.
A ripensarci adesso, sfuggono i limiti della figura, i contorni.
Comunque è opportuno tracciare linee curve,
per prudenza.


La madre teneva il foglio dritto,
il foglio ha due facce, una bianca, l’altra nera.
La nonna ritagliava nel foglio silhouettes
che a un tratto si mettevano a danzare.
Il padre regalava fogli ingialliti
alla bambina che disegnava case
tutte colorate.



Dunque

“Dunque è conclusivo” - replicava secca l’insegnante
dritta impalata nell’aula dalle pareti alte e lisce
solo adornate - per così dire - dal Crocifisso
e dai ritratti del Duce e del Re
e Imperatore. Eravamo in un Regio Liceo Ginnasio,
in un quartiere di borghesi immigrati,
nella Città Eterna. E l’affermazione
incontestabile gettava nello sconforto
la ragazzina che s’arrampicava
sulle pareti alte e lisce
di una memoria che sfuggiva. Dunque è conclusivo.
Come negarlo? Bisogna cercare
rami, pietre sporgenti, appoggi,
o una corda fissata con mani sicure
dagli uomini di casa, il padre, i fratelli maggiori.
Ma nessuna traccia di appoggi sulle pareti lisce,
nessun cammino percettibile sulle pareti di marmo,
non anfratti, non tronchi cavi, non fogliame,
non rovi, non fruscii, non voli.
Il bosco...fu forse fantasia...
fantasma, spettro, riflesso d’uno specchio...


I vecchi cantano perché si ricordano, dispiegano la voce,
i vecchi, e gli abitanti delle città piccole,
e soprattutto al Sud. La loro memoria s’indurisce,
diventa pietra: ma a sprazzi è prisma, e riflette
dalle sue facce, e concentra in sé, e proietta.
Essi cantano perché amano la melodia, o ritmano
col jazz, o fischiano
famme addurmì mentre si recano al lavoro
inappuntabili con l’ombrello
che si apre a scatto. E’ novembre, il mese
della città, della casa, del ringraziamento,
ma anche del capo chino,
dell’attesa di cenni benefici,
benevoli e benedicenti.
Si attendono vaticini, si scrutano i segni,
si colgono accenti, note,
si scorrono i titoli dei film,
ci si interroga, si progetta.
I bambini invece aspettano la festa,
l’incontro risolutivo che spalanca
l’uscio agli agnelli, la voce che dichiara.
Da ciò che è stato si staccano con sofferenza
perché poteva essere luce, perché potrebbe ancora essere luce
- essi pensano - ma noi lo abbandoniamo,
noi ci muoviamo, e le pedine sulla dama scorrono,
e il disegno geometrico immobile ci punirà...


Restano i vestiti appesi nell’armadio quando qualcuno muore,
restano nella casa armadi spalancati pieni di vestiti.
Forse per questo si teme a star soli di notte:
che non ci vengano tutti incontro, dritti e vuoti.
Si teme perché ci si ricorda del tempo perduto in conversazioni
in discussioni e teorizzazioni: ci rimproverano i vestiti vuoti
insistono, ci scherniscono.
Per liberarci siamo costretti
a indossarli davanti allo specchio,
freneticamente, uno dopo l’altro,
come maldestri clowns.


Sulle questioni di vita e di morte è però bene riflettere,
dato che non ci accontentiamo delle approssimazioni.
La perdita (l’abbandono) è la più concreta esperienza.
E il gioco dei castelli di carte sovrapposte, o dei bastoncini cinesi,
l’esercitazione della pazienza, il controllo della fermezza delle mani,
da una domenica all’altra ci costruiscono intorno una ragnatela
fragile e più o meno elaborata, ci consentono
passi esitanti, sguardi nascosti; fino al momento
che un sipario improvvisamente levato squarcia
lo spazio e ci si deve esporre
alla considerazione degli astanti.
Coloro che dai palchi, dalle volute e dai putti
dorati, dai fregi, dai velluti
posano per un momento lo sguardo sulla scena sacrificale,
sull’ara, sulle viscere dei miti animali sgozzati,
afferrano infreddoliti-infastiditi le morbide cappe
di raso o di zibellino, e voltandosi a metà interrogano le dame in decolleté
che giocherellano con i lunghi guanti glacés
riandando col pensiero alle carrozze imbottite,
ai servi che li aspettano nel freddo.
“E’ una distribuzione di parti” - ripetono,
sillabando straniati un coro dissonante.
Io credo oggi che bisogna eliminare il lampadario,
il tintinnio dei cristalli, il luccichio:
che ognuno volga lo sguardo al suo breve spazio,
liberando dai pesanti drappi le pareti di specchio.


Un messaggio arriva dal carcere,
lo porta un postino inusitato.
E’ la vecchia vergogna di noi sopravvissuti
che adorniamo gelidamente le nostre case nuove
controllando ogni gesto per paura di cedere all’insania
che accoppiandosi al rimorso genera morte.
E io - liberati gli specchi dai pesanti drappi neri -
affronto oggi finalmente l’immenso labirinto
senza occhi per le siepi, senza orecchi per le voci degli uccelli
e trascinata da un gravido vento mi spingo
avanti ciecamente alla ricerca
dei perduti fratelli.